Tratto da una storia vera
8 marzo
Quando poteva, era solita passeggiare a piedi nudi: attraverso il contatto con la materia i suoi pensieri assumevano dimensioni più ampie, il suo respiro si dilatava e gli occhi smettevano di guardare adagiandosi nei sogni.
Il mare, poi, era la sua Via Lattea, un percorso fatto di profumi e suoni, luci e riflessi, colori ed emozioni. Viaggiava, letteralmente, quando era sulla battigia; pochi passi erano interi percorsi della sua anima.
Si diresse nei pressi di una gabbianella che beccava sul bagnasciuga poco distante.
Nonostante il suo muoversi silenziosa fra i granelli di sabbia che le scorrevano sul dorso e le dita dei piedi, il volatile si allontano’ coprendo con le sue ali in volo, per un istante soltanto, i raggi di sole che le brillavano sul viso.
Si sedette e le acque fresche di quel mare sincero le bagnavano la pelle.
Con sé portava sempre una clessidra che tentava di non far mai concludere nella scansione del tempo.
Cominciò a giocare con le mani fra la sabbia bagnata nel disegnare immagini.
Chinò la testa per poi alzarla di nuovo verso il cielo inspirando profondamente con gli occhi chiusi.
Le uscì una lacrima che, scivolando dalle palpebre chiuse su tutta la guancia, si unì ad un sorriso velato.
Si rivide bambina. Quando ancora innocente dovette rapire la madre dalla forza volgare di un padre arrogante. Rivide i momenti in cui, nel silenzio della notte, abbracciata al cuore della donna, singhiozzava nel cercare ragioni che non vi erano e nel lasciar spazio all’ingombro di una comprensione che non era però ammessa. Ricordò le valigie in fretta riempite con i primi abiti che le capitarono senza badare, come invece faceva ogni ragazzina, ai loro colori né ai loro abbinamenti. Tirò via tutto quello che poté affinché si riempisse quel vuoto e colmo di qualcosa potesse iniziare il viaggio.
Ricordò gli occhi del suo amato meticcio che la osservavano, mesto, per un sicuro addio. Occhi che le avevano fatto più volte compagnia nelle giornate in cui l’eco della sua paura e della sua quasi solitudine prorompevano nell’udito.
Ricordò la porta che si chiudeva, di notte, lasciando che il buio ritornasse sulla strada; i passi veloci suoi e della mamma; il singhiozzo spezzato; le loro mani nelle mani ed i vestiti lunghi mossi dal flebile vento.
Si ricordò d’essersi girata, un ultima volta, per poter conservare l’istante di quella fuga che era anche l’abbandono della sua prima casa: quest’ultima cosa le si figurò come un amore spezzato dalla necessità di vita.
Non le sembrava possibile pensare che l’uomo che l’avrebbe dovuta difendere dal mondo sarebbe stato il suo primo avvelenatore, il carnefice della sua infanzia, della sua spensieratezza e della sua ragione.
Scomparve per difendere la madre nell’omertà di tutti tentando di conservare il candore e la speranza di una vita futura, diversa, in cui le sicurezze prendevano il loro spazio e la rinascita era condizione irrinunciabile.
Ricordò quei passi, rapidi, insicuri ma diretti.
La notte che le inseguiva insieme ai suoi profumi e le sue poche luci.
Ricordava i respiri affannosi proprio dei cuori accelerati.
Ricordò la via che per anni volle dimenticare.
Ricordò…
Voce di bimbi da lontano, irruppero poi fra i suoi pensieri riconducendola al presente. Si riprese, aprì gli occhi, inspirò di nuovo, profondamente.
Raccolse la clessidra di nuovo e la capovolse; si alzò scuotendosi la sabbia dalle gambe ed iniziò di nuovo ad andare.
Salì fin sulla strada, si sedette su un muretto e riprese i suoi sandali per indossarli.
Scosse gli ultimi granellini di sabbia dal dorso dei piedi e li calzò.
Spalle al sole, si diresse verso la bici incatenata poco più in là: la liberò e vi salì in sella.
I pedali le davano il ritmo della libertà, della natura, del suo tempo.
Costeggiava quel lungomare passando fra i giardinetti ivi posti, curati di alberi verdi ed erba folta.
Prima della fine del viale, prima di dover voltare verso il paese ed i suoi costumi, su una panchina vide un anziano. Gli passò accanto e dopo una decina di metri si fermò ad osservarlo.
Un brivido le percorse la schiena accaldata; i capelli le caddero supini come se un peso li avesse bloccati; il fiato le si spezzò.
Riconobbe suo padre. Ormai, vittima di sé stesso; immagine di ciò che era stato; vinto dalla sua stessa rabbia; soggiaciuto nel suo stesso perverso ardimento.
Era uno scheletro: con carne, sangue e tutto ciò che c’è d’umano ma l’immagine era solo quella che potesse ricordare un uomo.
Si voltò di nuovo, spinse sul pedale e rimise in equilibrio la bicicletta.
Il rumore della sua catena la spaventò per un istante.
Ma ricordò di nuovo…: che oggi è diventata una donna forte e indipendente, amica delle donne fragili. Nei suoi discorsi, insegna a non dare mai a nessuno il potere della propria vita. Anche se di fronte alle difficoltà non sembrano esserci vie d’uscita, s’incontra sempre qualcuno pronto a tenderci una mano (come ella stessa fa) e ad uscire dal tunnel di quella dipendenza chiamata “affettiva” che la rese per più tempo schiava.
Il pomeriggio volgeva al termine.
Il cielo vibrava per i colori del crepuscolo.
Girò l’angolo; il paesino era già più buio.
Il suo percorso non si fermò e si perse la sua immagine fra le ombre della sera.
Testo: Anna Buonincontri – Valentino Federico
Fotografia: Alessandro Lucibello