Il sole tardava a inabissarsi ed il cielo era ancora nei colori del crepuscolo.
Timidamente mi affacciai sul lato opposto del mare.
Adagio assunsi il mio posto e scivolando sulle acque arrivai ad accarezzare la terra che mi fu ospite.
La città si distese nel riposo e le poche luci accese delle finestre ammiccavano al mio cielo.
Quiete e silenzio avvolse il borgo rurale.
Le stradine erano strette, le abitazioni basse. Spesso i lampioni s’affacciavano sui balconi illuminandoli con disinvoltura.
Lungo una salita, al secondo piano di una rustica palazzina, una finestra era aperta.
Una giovane donna, vestita di pochi abiti e della sua bellezza, era ad una scrivania, seduta. La luce soffusa di un abat-jour disegnava morbide ombre sulle pareti della stanza ingigantendo i pensieri che racchiudeva.
Le tende socchiuse danzavano mosse da un flebile vento che sembrava suonasse un flauto dolce. L’immagine era accompagnata dalla calma di un suono che non c’era.
Scriveva su un foglio poche lettere. Alternava ad esse i contorni di un’immagine.
L’aria era fresca e vibrava di una delicata tensione. Rapidamente, con la penna fra le dita, schiccherò tutto. Chiuse il foglio in un cartoccio e lo spinse lontano da sé.
Il gesto avvolse la stanza in un sordo rumore il cui peso le fece chinare la testa nel gomito del braccio sinistro. Rimase così per qualche istante.
Il fruscio del vento entrò simile ad un bisbiglio.
Rialzò la fronte e su un altro foglio riprese a scrivere.
Gli occhi le si illuminarono di un’emozione taciuta ed una lacrima scorse sulla guancia scivolandole fin sulla carta.
I contorni dell’immagine accennata continuavano ad essere confusi. La penombra era una condizione voluta.
D’improvviso, quale rintocco di un orologio a pendolo, si girò a guardare fuori dalla finestra, a cercarmi.
Le tende bianche poste agli stipiti continuavano a muoversi ancora danzando: ci nascondevano l’una all’altra per brevi attimi; poi, come se facessimo capolino, ci incontravamo di nuovo nello sguardo.
Il movimento di quel cotone non riuscì a disattendere nessuna delle due.
Sembrava volesse chiedermi qualcosa senza che le parole superassero le labbra. I suoi occhi erano però eco di un racconto.
Si alzò dalla sedia, scostandola con fare delicato. Raggiunse la finestra. Entrambe le sue mani si poggiarono sulla pietra. Alzando il collo, si affacciò e, con un lungo sospiro, lasciò che i capelli scivolassero sulla schiena.
Mi guardò di nuovo, per pochi attimi.
Diresse poi lo sguardo in avanti. Sembrava che i suoi pensieri fossero stati proiettati verso un orizzonte in fuga. Calò poi ancor più la testa e socchiuse le palpebre. Con il capo curvo sul pavimento, ritornò ad adagiarsi sulla sedia.
Toccò con le dita il foglio divenuto la diapositiva dei suoi pensieri.
Calcò molto la mano come se avesse l’intenzione di rendere indelebile anche il tratto, cosciente ormai che, qualsiasi cosa rappresentasse (io non lo vedevo), era già impresso con il fuoco nel suo cuore.
Si fecero le tre del mattino e in quella città ormai il sonno signoreggiava fra le mura. Per alcuni, quelle ore scandivano il riposo; per altri erano il palcoscenico di sogni.
Per lei, invece, erano rumori agitati di pensieri.
Sembrava essersi assopita in un limbo; cosciente ma sospesa in una dimensione che ancora non trovava.
Tuttavia non sembrava vivesse un’inquietudine, ma certo era lo smarrimento.
I suoi movimenti erano vibrazioni sostenute da una tela sottilissima.
Appariva come circondata da una gigantesca bolla di un amore solido che le premeva su ogni suo membro tanto da non farle gestire il peso.
Il silenzio echeggiò; lo spazio di quella stanza si dilatò ed i battiti del cuore cavalcarono i respiri che divennero ribelli.
Dalla sua mano scivolò, cullandosi nell’aria, un piccolo nastrino blu. Si adagiò sul pavimento, fra i piedi nudi, prima d’essere di nuovo raccolto.
Stretto poi sul petto, irruppe un pianto.
Ed io capii… l’ardimento della donna per l’attesa della nuova vita!
Valentino Federico