Mi affacciai sul Tevere scivolando sulle sue acque tranquille. Roma, sublimazione del romanticismo, con i suoi borghi custodi di storia, era la città di quella mia notte.

Era tardi e il tempo scorreva tranquillo nel silenzio delle vie addormentate. Le luci delle case erano spente. Solo i lampioni delle strade disegnavano i contorni dei percorsi luccicando, di tanto in tanto, sui sampietrini umidi.

Un portone di legno verde, non troppo grande, si aprì. Ne uscì, curvo, un uomo anziano che cominciò a camminare dopo averlo chiuso dietro di sé con una mandata di chiavi.

Seguii quella figura. Non poteva essere un caso che fosse lì e, sentivo, non fosse neanche un bene. Non era di certo sicuro per lui incamminarsi solo fra le vie di una città intorpidita dal sonno.

Si diresse verso il ponte; iniziò a salirvi per oltrepassarlo. In mano aveva un cellulare illuminato da una foto. Lo udii parlare:

«Stanotte non riuscivo a dormire e così sono uscito un po’ a passeggiare.

Con il buio i pensieri si dilatano prendendo spazi che il giorno non gli concede; i tempi divengono più lunghi anche per chi, come me, sembra ne abbia vissuti già abbastanza.

Perché ti hanno portato via?

Sicuro i tuoi genitori avevano tutto il diritto di costruirsi il loro futuro e cercare di prometterne a te uno migliore. Ma la domanda del cuore rimane: perché ti hanno portato via? Le mie orecchie non odono che questa.

Eri il fresco pensiero delle mie giornate; eri il sorriso ancor prima di vederti.

Le tue risa, la tua voce, riempivano i miei momenti…

Non si può comprendere quanto amore provi il nonno per te! Quanto tu sia forza e bagliore nel tempo che gli rimane.

Quando giocavamo insieme, non lo facevo solo con te: giocavo con me stesso. Ritrovavo nelle tue mani, le mie; nei tuoi occhi, i miei; nella tua curiosità, l’epilogo della mia esperienza.

Mi faceva bene sentirmi utile; essere il libro delle tue fiabe. Raccontarti la mia vita, inondarti dei miei ricordi, quelli piacevoli, quelli in cui tu, pensavo, avessi potuto trovare ispirazione, orgoglio, felicità e riflessione.

Mi mancano i tuoi occhi gioiosi, spalancati nell’ascoltarmi. Mi facevi sentire adulto, non vecchio. Mi facevi sentire forte nonostante gli acciacchi.

Ti prego, appena puoi, ritorna da me…

Ti prometto che non sarò mai stanco. Ti riaccompagnerò per le strade. Ti farò giocare con le mie cose: te le farò anche rompere e le costruiremo di nuovo insieme.

Passeremo di nuovo fra gli alberi di limone, grattandone con le unghie la buccia; li annuseremo e saranno gli aromi di viaggi sempre nuovi fra le ombre e i rami.

Pur essendo senza capelli, mi farò pettinare; mi farò colorare il viso; mi farò sporcare di terra i vestiti; mi farò bagnare; mi farò strattonare.

L’importante è che torni, che il tuo sorriso sia di nuovo qui, che i tuoi occhi mi tornino a guardare.

Ti dico queste cose perché tu non puoi ascoltarle: ne parlo alla tua foto. Tu non mi sentirai mai nostalgico: dovrai vedermi sempre forte; dovrai sempre poter dire, con orgoglio: “il mio nonno…”

Non pensavo potesse essere così forte, così intenso l’amore per un nipote, così “vicino”.

Vedevo in te tutti i miei giorni; vedevo in te ancora il mio tempo, il mio futuro.

Da quando anche la nonna se ne è andata lasciando queste quattro ossa sole nella casa di una vita, l’eco della tua voce era per me ristoro; era per me quotidianità; era respiro; era battito.

Non riesco ancora ad accettare che tu sia andato via, che non sei più in questa città, che non sei più con me.

E’ un bene ed è tanto giusto quanto ovvio che tu non senta la stessa mancanza. I tuoi giorni sono pieni: pieni di musica, di giochi, di sole e di avvenire.

Io rivendico la mia vecchiaia e il desiderio di volerla trascorrere con te.

Un desiderio che però tu non potrai conoscere: almeno non dalle parole.

Ti amo, cuore mio. Ti amo di un amore diverso, intimo, sanguigno, viscerale.

Ho passato una vita con il capo chino sul lavoro a non prendermi cura di me, a non passare il tempo necessario con tua madre. Lavoravo instancabilmente affinché non mancasse nulla nella nostra casa.

Ma proprio ora che ho il tempo, non ho più te al mio fianco; non ho più te con cui poterlo e volerlo passare.

Lo so, è la vita: è il normale corso che deve fare. E’ giusto così ma questo non toglie intensità alla mia tristezza.

Vorrei riaverti sulle mie ginocchia che smettono di farmi male quando vi sali su. Vorrei vedere di nuovo i tuoi occhi chiudersi e addormentarsi stringendo il tuo viso fra le mie mani.

Continuavo a parlarti con le vocine, senza sentirmi stupido, trovando piena dignità nel fatto che a te piaceva che io lo facessi.

Che cos’è l’amore se non questo: il volersi dare solo per il gusto di farlo e per la gioia dell’altro.

Cos’è se non dimenticarsi dell’io per dare ascolto al “te”.

Cos’è dunque l’amore se non l’essere ciò che è giusto per l’altro senza che ci venga chiesto: il darsi dunque senza attendere una contropartita; il darsi per ritrovarsi nell’altro.

Tu sei per me molto di più di quanto io possa essere mai per te. Ripeto: è la vita, è così e va bene… ma torna da me.

Chiedo di poterti respirare ancora».

Il vecchietto si alzò e mise il telefono nella tasca del suo giubbino; percorse il ponte lentamente con il capo ricurvo verso i suoi passi claudicanti. Le lacrime si perdevano nel riflesso del fiume che scorreva sotto di lui.

Di lontano vide due persone venire dal lato opposto e prima di incrociarle, senza farsi notare, con le dita della mano si strofinò sugli occhi e poi, con un fazzoletto di stoffa che aveva in tasca, si asciugò.

Camminò ancora concentrandosi sui suoi piedi e sui suoi passi cercando di non pensare al dolore che, invece, lo aveva condotto fuori in quell’ora tarda, sotto quell’umido. Camminava sentendo lo struscio che le suole delle scarpe facevano.

Nel frattempo, il silenzio fu riempito dallo squillo di un telefono ma lui, senza rendersene conto, continuò ad andare fino a quando, infine, lo sentì. Infilò la mano nella giacca, cercò di prenderlo ma il cellulare smise di squillare. La telefonata andò persa. Si domandava chi fosse e nei suoi occhi si leggeva tutta la contrarietà verso se stesso per non averlo sentito in tempo.

Erano poche le telefonate che riceveva, quasi nulle. Erano poche le persone che si ricordavano di lui. Anche se fosse stato l’errore di qualcuno, una telefonata partita per sbaglio, in quel momento, gli avrebbe consentito di guadagnare una voce.

In cuor suo, rimaneva però accesa la speranza che la telefonata fosse stata voluta. Tanto più però questo desiderio si lasciava toccare tanto più accresceva il suo rammarico di non essere riuscito a sentire e rispondere in tempo.

Si appoggiò, quasi accasciandosi, al muretto sul lato destro. Le pietre umide gli bagnarono la giacca e la parte bassa del pantalone. Un brivido di freddo lo scosse nel corpo quanto la solitudine lo stava già percuotendo nell’anima.

Improvvisamente il cellulare riprese a suonare. Non fece neanche concludere il ring del primo squillo che rispose.

Con una voce rauca ma desiderosa di mostrare sicurezza disse: «pronto».

Sentì: «nonno, ti voglio bene. Non riuscivo a dormire e volevo sentirti. Ho chiesto a mamma e papà il permesso di chiamarti. Mi racconti una storia?»

Il quel momento, l’anziano si curvò del tutto. Prese poi un lungo respiro, si drizzò in tutta la sua altezza quasi che i muscoli si fossero rinvigoriti tutto ad un tratto ed iniziò, sorridendo, a raccontarne una…

Valentino Federico

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